La Tecnica: L'aerografo

  • Ci sono strumenti che nascono per la precisione e finiscono per raccontare l’indefinito. L’aerografo, minuscolo congegno nato a fine Ottocento per nebulizzare il colore, è uno di questi. Apparentemente tecnico, quasi chirurgico, nelle mani giuste si trasforma in uno strumento lirico, capace di evocare piuttosto che definire. Chiara Del Vecchio lo ha scelto come prolungamento naturale del proprio pensiero visivo: dopo anni di studio, di esercizio, di ascolto della materia, ne ha fatto la voce della sua poetica.

     

    La superficie delle sue tele, ampie, eteree, immerse in un’atmosfera di sospensione, si offre come campo di apparizioni sfuggenti. I volti, i corpi, le presenze che emergono dalle sue nebulizzazioni non si impongono, non si dichiarano. Appaiono, si dissolvono, ci osservano mentre li osserviamo. Sono immagini fuori fuoco, non per imperfezione, ma per intenzione: sfidano la nostra abitudine a volere tutto nitido, tutto leggibile, tutto controllabile. Invece, ci costringono a rallentare, a mettere in gioco i nostri ricordi, a filtrare ciò che vediamo attraverso l’esperienza personale.

  •  Si vede chiaramente solo con il cuore

    Antoine de Saint-Exupéry

  • Dietro ogni tela, però, si cela un processo lungo, rigoroso, profondamente meditato. Ogni opera prende avvio da una fase di ricerca fotografica, durante la quale l’artista seleziona immagini, frammenti, atmosfere. Da questo materiale visivo, nasce poi un disegno preparatorio a matita e grafite: una mappa silenziosa, spesso minuziosa, che costituisce la struttura portante del lavoro. Questi disegni, delicati e intensi, contengono già in nuce tutto ciò che emergerà — e, insieme, tutto ciò che verrà velato.
    Sopra questa base nasce una vera e propria stratificazione, una costruzione per veli. Layer su layer, strato dopo strato, il disegno viene progressivamente ricoperto da una nebbia cromatica, da passaggi successivi di colore acrilico applicato con l’aerografo. Ogni passaggio attenua i contorni, diluisce le certezze, trasforma la forma in atmosfera. È un processo di sottrazione, ma anche di rivelazione: mentre si perdono i dettagli, si accende la suggestione. Il segno grafico iniziale non scompare mai del tutto — resta sotto, silenzioso, come una presenza che vibra attraverso il colore.
     
    “Nulla è permanente”, afferma l’artista. “La vita si trasforma, e con essa la nostra percezione della realtà.” I suoi dipinti diventano così degli studi sensibili sulla transitorietà, sulla materia che si sfalda, sulla forma che si trasforma. Ma anche — e forse soprattutto — sull’identità. In un mondo che ci vuole definiti, catalogabili, riconoscibili a prima vista, Chiara Del Vecchio ci propone un’altra possibilità: quella di essere, finalmente, sfumati.
    Le sue figure parlano di noi più di quanto non sembri. Non perché siano ritratti fedeli, ma perché toccano quella zona profonda dove risiedono le memorie, le assenze, le emozioni non ancora nominate. Ogni volto che emerge dalle sue superfici è anche il nostro volto — quello che abbiamo dimenticato, quello che abbiamo nascosto, quello che riconosciamo senza sapere da dove venga.

     

    BIO

  • Le grandi tele di Chiara Del Vecchio, realizzate con colore acrilico nebulizzato, abitano una dimensione eterea, completamente fuori fuoco, che invita lo spettatore in un mondo sospeso, al confine tra il visibile e l’invisibile. La scelta tecnica non è casuale, ma profondamente concettuale: “Utilizzo questa modalità per dare forma all’impermanenza,” afferma l’artista. “Tutto cambia, si trasforma, proprio come la realtà che ci circonda. L’unico elemento che resta, che ci definisce in modo autentico, è l’insieme delle nostre esperienze.”

    I suoi dipinti si configurano così come esplorazioni sensibili della percezione, diventando il punto di partenza per un dialogo intimo con chi osserva. “Vorrei che l’immagine fosse vissuta, non semplicemente guardata,” spiega Del Vecchio. “Che fosse attraversata attraverso un processo personale di identificazione, così da generare un senso aperto, non definitivo, ma mutevole e profondamente individuale.”

    La sua pratica si colloca in uno spazio di sottile mistero — tra il detto e il non detto, tra il conosciuto e lo sconosciuto. Tra l’essere e il non essere.

     

    Il rapporto tra opera e spettatore si trasforma, così, in una danza silenziosa: non più osservazione passiva, ma dialogo sottile. L’opera si attiva nella nostra mente, diventa personale, mutevole, infinita. Come in un sogno, non ci viene data una verità, ma uno spazio aperto dove cercarla. Chiara Del Vecchio non dipinge per mostrare, ma per suggerire. Non costruisce immagini, ma atmosfere. E in esse, ci invita a ritrovarci. Il suo lavoro abita con grazia quel limbo affascinante tra l’essere e il non essere, tra il visibile e l’invisibile. Ogni tela è una soglia, ogni figura un enigma. Eppure, in questo mistero, c’è qualcosa di profondamente umano, di vicino. È pittura che respira, che si muove, che accoglie. Pittura che, paradossalmente, attraverso la sfocatura, ci restituisce la nitidezza del sentire.

     

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